Torre Lapillo, miseria e nessuna nobiltà

Vu cumpràTorre Lapillo (Le) – Uno dei giorni più roventi di questa estate salentina. Torre Lapillo. 3 agosto 2013, un’ora prima del tramonto. Loro sono arrivati lì, su quel marciapiede, attraversando il mare. Profondo e nero come un incubo, agitato e inquieto come i loro cuori, hanno riposto in sacchetti lerci sogni di gloria e miseri stracci, hanno lasciato lacrime silenziose e ricordi piccini tra le braccia forti delle proprie madri, hanno scavato buche sulla polvere dei deserti che li hanno visti nascere e lì hanno sepolto preghiere di futuro e promesse di ritorni. Sono partiti verso un nord qualunque mentre il mare apriva le sue immense fauci e la zattera si allontanava dagli occhi delle madri.

Zitte sulla riva. Senza fazzoletti da sventolare né parole da pronunciare o consigli da dispensare. Gli occhi ad inseguire quel puntino sempre più invisibile su un orizzonte confuso. La zattera. Il proprio figlio. Il futuro. Una preghiera. Un miraggio. O un addio.

Anche i negri, gli extracomunitari, i vu cumprà hanno le madri. Lo sapevate? Lo sapevamo? Sono arrivati in Puglia, sono vivi e pieni di meraviglia. Un luogo che non sapevano esistesse. I colori somigliano a quelli dei loro pochi alberi, della terra, dei riverberi di luce; il cielo è azzurro, questo posto sembra un po’ casa, li ospiterà, darà loro un futuro, cullerà i sogni, regalerà un giorno nuovo. E loro in cambio, spremeranno sudore e fatica dai corpi usati come cavalli da soma, senza dignità, stipati in case diroccate gli uni sugli altri, una cucina a due fuochi incrostata in eterno, puzzo di fritto scadente e periferia.

Senza parole. Diversi. Sabato pomeriggio erano lì, sul marciapiede sgangherato di un luogo dimenticato dallo Stato. Un luogo senza vigili, carabinieri o tutori dell’ordine pubblico. Un luogo incantato che la natura generosa ha dotato di un mare da favola. Erano lì come ogni pomeriggio a centellinarsi ogni centimetro di quel prezioso marciapiede. Erano con la loro mercanzia da esporre e tentare di vendere ai vacanzieri sfiniti dopo un giorno rovente, che sarà necessario un mese di riposo per riprendersi dallo stress di una vacanza lì. Diligenti, ciascuno sul proprio pezzo di proprietà nuda ed aleatoria come le bolle di sapone; composti su quel territorio costato denaro e molto altro.

All’improvviso l’equilibrio si rompe. Forse qualcuno ha rubato un millimetro di spazio, forse ha detto una parola di troppo. L’aria immobile di un pomeriggio infernale diventa incandescente, volano parole sconosciute ma comprensibili, e pugni calci schiaffi. Una sbarra di ferro. Il mondo si ferma. Le auto, i villeggianti. Tutti immobili. I commercianti extracomunitari dimenticano le proprie madri, le promesse, i ritorni. Sono fatti di carne e sangue rosso come il nostro; giuro, l’ho visto scendere da alcuni di quei volti stranieri. Sangue rosso su pelli nere come l’inferno.

Incredibile. Sono fatti di nervi che saltano, di miserabili vitali spazi da difendere. Come noi. Sono divisi in clan, si aiutano tra loro, dimostrano la propria solidarietà a suon di calci improvvisati, chi c’è c’è e andiamo avanti. Gli italiani si godono lo spettacolo. Nessuno di loro interviene o chiama la polizia. I volti non sono sfigurati dalla paura che possa succedere l’irreparabile. Già, l’irreparabile per chi? C’è solo una lucida raccapricciante curiosità. La scena si quieta. Meno male. E speriamo che non abbia code cruente. La musica è finita, gli spettatori se ne vanno sui loro infradito stanchi che sembrano trascinare anime pesanti e sfinite. Tutto come prima. Niente di grave. Niente di niente. E chissà quanti paesi d’Italia diventano palcoscenici di vite misere, chissà in quanti luoghi si muore di violenza, di incidenti evitabili. Chissà quanta terra di nessuno c’è in giro per tutto il territorio nazionale.

Ma questa è un po’ casa mia. Torre Lapillo, frazione di Porto Cesareo. Gioiello dello Ionio. Dello Ionio, appunto. E di niente altro.

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