A ciascuno i suoi spazi

Quante volte ci è capitato e ci capita ancora di rivendicare i “nostri spazi”.

I “miei spazi” … Mai termine fu straordinariamente moderno. “Non facciamo ancora un figlio perché abbiamo bisogno dei nostri spazi … “, “Non cambio lavoro perché dovrei  rinunciare ai miei spazi … “, “Non vivo un nuovo rapporto d’amore perché ho paura di perdere i miei spazi …”.

Sembra quasi che “lo spazio” non esista più, ma esistono “gli spazi”. Lo spazio, quello vero, quello che uno porta sempre con sé – lo spazio della riflessione profonda, della meditazione, dell’ascesi ovvero quello del confronto e della relazione con una dimensione “altra” – è ormai quasi del tutto un ricordo, pressoché scomparso. Al suo posto, come funghi parassiti, sono comparsi gli “spazi”, ovvero una dimensione dell’esistere priva di doveri.

Diremmo che, negli spazi, c’è ampia libertà e, quindi, possiamo tranquillamente riempirli con ciò che più ci aggrada. E dunque, possiamo ballare, vedere gli amici, imparare il burraco, iscriversi ad un corso yoga e ad un altro di cartapesta. Sentiamo finalmente di poterci realizzare.

“Realizzarsi”: altra parola magica che sposta le montagne, figlia di quell’agitatissimo – seppur necessario – periodo che è stato il ’68.

Eppure, triste a dirlo, i nostri avi (nonni e bisnonni, nella fattispecie) non pensavano certo a realizzarsi. La loro realizzazione era tutta compresa nell’assolvere nel miglior modo possibile le esigenze della vita quotidiana. La realizzazione che noi andiamo cercando negli “spazi”, invece, è legata ad una qualche forma di creatività. Teoricamente è un pensiero bellissimo; troppo spesso, però, nella vita reale, si trasforma in una vera e propria trappola.

Il pensiero di questi spazi porta a riflettere alla vita delle piante nelle serre. Lì, le piante crescono meglio dentro che all’esterno. Ma solo fino ad un certo punto. Appena la temperatura si scalda, occorrerà portarle fuori, all’aria aperta, se non vogliamo che muoiano. E anche quando sono dentro, per non farle ammalare, è necessario aprire le finestre, fare entrare aria nuova.

Pertanto, lo spazio inteso in questi termini, è un luogo in cui dovrebbero compiersi mitici processi di liberazione: dal grigiore, dalla ripetitività, dalla mancanza di senso.

Però, è davvero così che avviene la liberazione? E’ veramente possibile che essa sia frutto o conseguenza naturale dei nostri sforzi, della nostra volontà?

Non c’è giorno in cui non ci si svegli con la curiosità che è propria di ogni persona vivente: “Cosa mi succederà …, Chi incontrerò … Che emozioni toccheranno il mio cuore … In che modo e misura sarò in grado di toccare il cuore degli altri ?”

Confinare la nostra realizzazione alla frequenza di uno spazio limitato della nostra vita, equivale a condannarla ad una insanabile anoressia dei sentimenti, “assicurarle” una crescita stentata, malata, di breve durata. Non si possono imporre dei limiti a qualcosa che, per diritto nativo, è abbattimento del limite. Lo spazio che ci è dato per realizzarsi, è quello compreso tra il nostro primo respiro e l’ultimo. E dunque non c’è momento della giornata che non debba essere asservito a questo principio. Non c’è istante del nostro quotidiano esistere che non racchiuda in sé la luminosità purissima di un diamante tanto quanto il pastoso grigiore della grafite. Entrambi – diamante e grafite – sono composti di atomi di carbonio. E’ la disposizione ad essere diversa.

Allora, c’è da domandarsi in quale disposizione ciascuno ponga i suoi “atomi”: sul piano orizzontale o su quello verticale ? Ci lasciamo attraversare dalla luce o abbassiamo lo sguardo?

E se balliamo, per chi balliamo?  Per gratificare il nostro ego o perché tutto il nostro essere già danza, rapito nella gioia della comunione ?

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