Mario

Mario si alzò come sempre alle 5.
Soliti gesti, soliti riti.
Andò in cucina a preparare un caffè e vi trovò i resti della torta che la mamma aveva preparato il giorno prima.

30 gennaio 1980, giorno del suo trentesimo compleanno.

Si vestì, curandosi di cautelarsi ben bene, indossò giubbotto e cappello di lana, e, con la borsa a tracollo, uscii facendo bene attenzione a non svegliare sua madre col rumore della porta vecchia e cigolante.

Fuori fu inghiottito dalla nebbia.
Era buio, e quella mattina più di ogni altra, il mondo silenzioso e ovattato gli sembrò spettrale.
Era lunedì, aveva appena compiuto 30 anni e tutto gli sembrava avere un peso insopportabile per l’anima sua.
Il tragitto che da anni compiva a piedi per raggiungere la fermata dell’autobus, quella mattina gli sembrò più faticoso che mai.
I suoi passi echeggiavano nel vuoto stradone di periferia, i lampioni illuminavano fiocamente i palazzi ancora addormentati e un freddo pungente penetrava dappertutto.
Rabbrividì e si portò le mani al viso in un tentativo disperato di trovare e donarsi calore.
Era un operaio e viveva con sua madre in un angolo di mondo dove trovano rifugio i poveri, gli umili, la gente senza pretese che nasce e muore senza lasciare tracce, che sopravvive senza sogni e senza illusioni.
Giorni come granelli di un inutile rosario.
Nonostante tutto, Mario era sereno.
La sua casetta di due stanze gli piaceva, la considerava il suo rifugio e a primavera ne addobbava l’unico, microscopico balcone con vasi di fiori colorati.
Sua madre, poi, dava a quel rifugio un sapore antico, di infanzia felice, semplice e mai dimenticata.
Un’infanzia di papà, mamma e figlio.
Mario tornava in quella casa, la sera, e sentiva per le scale odore di biscotti, di cibi appena cotti e Dio! com’era contento, perché sapeva che in quel minuscolo posto, con amore, qualcuno aveva atteso il suo ritorno ed era pronto a fargli una carezza e a consolarlo per la fatica svolta.
Ma quel lunedì mattina, la nebbia, il freddo, il pensiero di sua madre costretta a sorridere per non piangere, per non morire e per dare a lui la forza di continuare in quel grigiore; quella mattina tutto faceva molto male e la voglia di dare un calcio alla miseria fu tanto forte che quella sensazione, quella rabbia, quel disagio non lo abbandonarono per molte ore.
In fabbrica lavorò assorto nei suoi pensieri e nell’ora di pausa si unì ai suoi colleghi proprio per non soccombere definitivamente allo scoramento.
Loro erano elettrizzati, parlavano della vincita milionaria che c’era stata nella loro città, il giorno prima, al concorso totocalcio.
Mario sorrise, provando la solita pena per se stesso.
Aveva giocato tante di quelle schedine che, anche se continuava a farlo, spesso si dimenticava pure di controllarne i risultati.
Perché quella volta doveva essere diverso?
Prese la scheda dalla sua borsa logora, si fece dare i risultati e controllò.
Controllò molte volte, e ogni volta faceva fatica a convincersi che la conta si fermava giusto a 13!
Mario miliardario, no, non ci credeva!
Mario l’operaio, Mario che viveva nel ghetto, Mario che lottava con la miseria, che si drogava con l’odore nauseante del sugo, che aspettava la primavera come unico segno di rinascita e di speranza nelle due stanze di periferia, Mario e la sua mamma dolce e forte che spesso sorrideva per non piangere.
La povertà finì di colpo.
Il primo acquisto fu una villetta con un piccolo giardino per coltivare i suoi amati fiori, adottò un cane, comprò la sua prima auto, un po’ di vestiti nuovi, assunse una signora che aiutasse sua madre nelle fatiche giornaliere.
Non volle, però, lasciare il suo lavoro di operaio perché lui conosceva bene il valore dei soldi e del lavoro e non voleva vivere di rendita diventando un povero spocchioso, ricco, vizioso e viziato.
I miliardi non cambiano tutte le persone – si diceva, e conoscendo gli stenti in cui vivevano i suoi colleghi, investì quasi tutto il restante denaro in una struttura sportiva che consentisse ai figli degli operai di avere alternative alla strada, alla noia o ad altro.
Lì i ragazzi giocavano a calcio, a tennis, a biliardo.
C’era una sala lettura e una per ascoltare la musica.
Tutti gli volevano bene e gli erano grati, e lui era davvero felice.

Mario Mario, sono cinque minuti che suona la sveglia, ma cos’hai stamattina, non vuoi alzarti?
No, mamma, è solo che stavo facendo un bel sogno….
A proposito di sogni, Mario, oggi è venerdì, ricordati di giocare la schedina, non si sa mai.
Mario uscì nel gelo e percorse come sempre sui suoi piedi quella strada che univa casa sua alla fermata del tram.
Era tutto uguale a sempre ma il freddo era più intenso, un sordo dolore gli stringeva l’anima e cominciava a piovere.
Mario non aveva l’ombrello ma quello era solo uno sciocco particolare.

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