Domani

Domani verranno a prenderli. Mi rimane una notte per accarezzarli.

Mi ricordo molto bene quella sera in cui ci sedemmo attorno al tavolo in cucina, tutta la famiglia riunita. C’era anche mia sorella Antonia che, seppur sposata, doveva essere presente in vista di grandi scelte e decisioni importanti.

Mio padre prese un piccolo sacco polveroso, lo aprì, lo svuotò e cominciammo a contare. Non avevo mai visto tanti soldi in tutta la mia vita. Il denaro era un’astrazione, un affare che non ci doveva interessare e di cui si occupava esclusivamente mio padre.

Che era buono e non faceva mancare nulla alla sua famiglia.

Io sin da piccola avevo vissuto di lavoro nei campi, sudore estivo e gelo invernale.

D’estate, dopo tanta fatica, si ballava sull’aia nel frastuono di fisarmoniche e risate; d’inverno il camino acceso diventava l’unica compagnia utile dove, tra l’altro, cuocere una minestra di ceci e imbambolarsi a sognare.

Nello stanzone d’ingresso c’era la cassapanca della nonna dove si riponeva il corredo che noi ragazze cucivamo di sera al bagliore di candele che presto avrebbero bruciato i nostri occhi. Ma allora non ci pensavamo. Allora c’era un filo invisibile che legava i nostri sogni riflessi nelle lingue di fuoco al contenuto magico della cassapanca. Quel filo si chiamava Amore. Il sogno di avere un fidanzato, di sposarsi, un giorno, e mettere al mondo dei figli. Proprio come avevano fatto la mamma e la nonna e sicuramente tutte le mamme e le nonne che le avevano precedute.

Dunque quella sera eravamo lì, nella nostra solita piccola casa e, seduti attorno al tavolo, guardavamo con religioso silenzio quello che sembrava un rito sacro, celebrato da nostro padre.

“Ginetta, li vedi? Sono i soldi che, grazie al tuo lavoro di questi anni, io ho conservato per te. Non sono tutti, perché molti sono serviti ad aiutare la famiglia. Ma per il tuo matrimonio basteranno. Questi per la stoffa dell’abito che ti cucirà tua sorella Maddalena”, e piantava lì una pila da cento lire. “Questi per i dolci ed il rosolio da offrire dopo la cerimonia”, e più in là un altro gruzzoletto. “Questi, oddio quanti!, per la camera da letto. I fiori li prenderemo dal giardino. E che Dio ti benedica”.

La riunione si sciolse. Io non osavo mettere le mani su quel denaro. Mi sembrava una cifra enorme, mi sentivo in colpa perché sapevo che li toglievo alla mia famiglia, ma ci pensò mia madre a rassicurarmi. Quella madre che non mi aveva mai dato una carezza, mi abbracciò e mi sorrise.

Avevo anche la sua benedizione, dunque.

Poi, uno ad uno, mi abbracciarono i miei due fratelli e le mie due sorelle.

Potevo cominciare ad essere felice. Il mio futuro sposo ed io avevamo trovato una casa dove abitare, un ingressino, una camera da letto, una minuscola cucina e il bagno fuori, in un cortile tutto nostro.

Un paradiso!

E quando arrivarono i mobili, la gioia raggiunse l’apice. Era un nido meraviglioso, ornato dalle tende che io stessa avevo cucito, gli asciugamani di lino ricamati e le lenzuola degne di una regina.

Tutto andò bene e addirittura il 23 gennaio di quell’anno lontano, prima di uscire da casa al braccio di mio padre, iniziò a piovere. Segno certissimo di un ottimo matrimonio.

Vincenzo era sul sagrato ad aspettarmi. Il cuore mio sobbalza ancora quando sfoglio l’album di quegli attimi. Segregato, perché non era possibile semplicemente custodirlo.

La prima notte. Paura, ansia, gioia, timidezza, lacrime, insicurezza, confusione. La seconda e la terza e tante notti di abbracci affettuosi e caldi che mi facevano pensare di essere nel luogo migliore che il buon Dio avesse potuto scegliere per me.

Poi nacque nostra figlia. Felicità. Breve.

Qualche mese di avvisaglie che volutamente ignoravo. Dopo arrivò la valanga di problemi e portò via il lavoro. Infine giunse la scelta necessaria di emigrare. Chiamala scelta! Andare all’estero. Senza famiglia, senza radici, senza amici, anche se a Zurigo c’era il cugino Salvatore; senza conoscere la lingua, una cosa incredibile per me che già non riuscivo a parlare correttamente la mia.

I miei mobili, la mia camera da letto, le tende e le lenzuola ricamate, la mia casa.

Mi sembrava di aver perso tutte le mie ricchezze, neanche il tempo di abituarsi a quel gusto dolce di un’intimità solo tua, di un calore che nessuno ti potrà mai togliere. Niente. Non mi spettava niente.

Chiudemmo casa per sempre. I mobili in uno scantinato umido, le lacrime di tutto un mondo che lasciavo, una corriera che ci accompagnò in stazione e un treno malvagio ad allontanarci velocemente dalla nostra terra.

La solitudine che vivono le persone costrette a lasciare un luogo che amano è devastante, non ha nome.

Eppure fu necessario asciugarsi in fretta le lacrime, sistemare sui mobili di case strane e diverse da quelle note, le foto dei miei genitori e dei miei fratelli, in riga ordinata come in una cappella funebre, abituarsi a respirare un’aria nuova e per niente salubre, rimboccarsi le maniche, bussare alle porte, trovare un lavoro che non si sapeva fare e via. Fabbrica. Ma non come quelle del mio paese dove si lavorava il tabacco. Fabbriche di piombo, di ferri vari, fabbriche industriali, tossiche, mortali. Non ero più contadina né mio marito muratore. Eravamo diventati operai. Un bel balzo sociale. Pazienza se in un futuro che non avremmo mai immaginato quel salto ci avrebbe tolto dignità e regalato malattia e morte.

Mi consolavo guardando la mia bambina crescere bella come il sole e intelligente come nessun’altra. La mia bambina parlava il tedesco. Un giorno sarebbe diventata professoressa, non zoticona come noi.

Spingevo il tempo e non vivevo i giorni, augurandomi e sognando il momento del ritorno a casa. La casa dei nostri sogni, quella per la quale avevamo sacrificato anni di vita.

Noi eravamo all’estero e i miei genitori seguivano i lavori di un progetto grandioso che pian piano si andava concretizzando. Avevamo comprato un pezzo di terra. Avevamo iniziato a costruire quello che per noi era un castello: salone, cucina, due camere da letto, bagno, garage. Una reggia.

Eravamo ancora giovani e l’idea del ritorno era così bella che ci regalò nuovi entusiasmi.

Salutammo la Svizzera, senza nostalgie.

Quel cielo dove pure trascorsi 20 anni non divenne mai il mio cielo. Mai la mia terra. I suoi colori non si impressero mai nella mia mente, lì fui sempre fantasma in un limbo che non riconoscevo.

Tornare fu meraviglioso. Ritrovai i miei affetti, i miei mobili e le mie lenzuola di pizzo, ma dopo qualche mese capì pure che rimettere insieme i pezzi di un vaso rotto non ti darà mai il risultato originario.

La vita ci aveva tolto tanto, niente era più come quando eravamo partiti, noi non eravamo gli stessi. Vincenzo non era più lo stesso e forse non lo sarebbe stato neppure nei giorni a venire. Fu per molti anni vittima di una terribile malattia contratta in fabbrica. Diventò l’ombra dell’uomo che avevo sposato e dopo un calvario che durò anni, morì lasciandomi la pressante e svilente sensazione di non essere stata capace di regalargli un sogno.

La casa per la quale, lui più di me, avevamo sacrificato tutto fu venduta. Un nuovo spostamento. E quei poveri mobili sempre dietro me come una coperta ferita e lisa dal gelo di  troppi inverni.

E infine i debiti. E sacrifici e umiliazioni e dovermi inventare un lavoro per sopravvivere e poter comprare a mia figlia un pacco di colori, perché non è diventata professoressa ma ama disegnare.

I colori costano e anche i pennelli. E i vestiti e il cibo. E le porte dove ho bussato sono rimaste chiuse. E ho compreso  che non m’è rimasto più nulla.

Domani vengono a prendersi i miei mobili.

Quelli per i quali mio padre, in una fredda e lontana sera d’inverno, aprì un sacchetto polveroso, seduto con la famiglia intorno a un tavolo povero e dignitoso. Non valgono niente, loro lo sanno ma devono farlo.

E cosa importa se quei quattro pezzi di legno racchiudono la musica triste di due esistenze, i sacrifici di una famiglia, i sogni di una vecchia ragazza.

I debiti si pagano. E io li pagherò.

Non è ancora domani. Ho tutta la notte per accarezzarli.

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