Auguri, papà

Lei entrò e portò con sé i suoi occhi azzurri, i vestiti strappati e suo figlio tra le braccia.Era affannata, a dispetto della sua giovinezza.  Aveva corso molto per arrivare fin lì.

Lui la vide e per un attimo il suo cuore si fermò. Poi riprese a battere impazzito.

Non dissero neppure una parola. Lei adagiò il bambino su un materasso sventrato e sporco, altro non c’era oltre il lurido pavimento. Lui estasiato continuava a guardarla mentre compiva gesti precisi, come se stesse vedendo le scene di un film.

Fuori imperversava una tempesta fatta di rumori troppo diversi tra loro, per essere classificati.Era giorno, ma nella casa le persiane chiuse  facevano filtrare solo un filo di quella luce che fuori esplodeva in mille riverberi di vario genere.

La ragazza si avvicinò e gli offrì ancora gli occhi, enormi. L’unica cosa di lei che si vedeva.Poi scoprì il viso, e lo guardò bevendolo e annusandolo, cominciò a toccargli i capelli neri come il carbone, glieli strappò con l’impeto dell’amore, gli prese le labbra tra le mani e cominciò a baciarlo. A baciarlo immensamente.  Su ogni angolo di pelle, sui muscoli ben disegnati, sui tatuaggi del breve tempo che fu la giovinezza di lui. Gli entrò dappertutto. Nel corpo e nell’anima.

Iniziarono a donarsi l’uno all’altra contro il tempo e la paura.

Pazza. Sembrava ed era una pazza. E lui l’amava. Anche se sapeva che non poteva, non gli era consentito. Anche se ogni bacio era un coltello piantato nel cuore.

I brividi correvano in ogni cellula e nessuno di loro riuscì a fermarsi. Un’onda di straordinaria felicità sorresse quegli attimi eterni. Il loro incontro visse con determinazione, si consumò velocemente e morì in pochi minuti. D’altra parte si meritavano un po’ d’amore, anche perché per loro poteva essere l’ultimo.

E così fu. Nel silenzio di due anime schiaffeggiate e negate.

Non ci fu tempo per immaginare una storia normale, per pensare a due ragazzi mentre passeggiano mano nella mano sulla loro spiaggia o mentre bevono una birra con gli amici, dopo una corsa in moto. Né per pensare ad un altare, ad una festa, ad un albero di pesco fiorito. O ad un inverno caldo, al cospetto di un camino con un gatto che sonnecchia  sulle ginocchia e un bimbo su un tappeto che sfoglia un libro di favole.

Lui la guardò mentre si rivestiva, e vide le lacrime in quegli occhi immensi. E il sangue rosso e vivo che usciva dalla ferita di lei, sulla sua gamba bianca e snella.

Cercò di pulirle la ferita ma lei lo fermò.

“Rivestiti” gli disse “e bacia il nostro bambino, potresti non rivederlo mai più.”

Lui si avvicinò a quel fagotto inconsapevole e caldo.

Lo prese tra le braccia e lievemente lo baciò. Il bambino aprì gli occhi e sussurrò: “Auguri, papà.” E gli mise in mano un disegno di loro tre insieme. Il padre sorrise, lo strinse forte a sé e lo riconsegnò alla madre, dopo avergli dato un ultimo bacio. Lei non volle nulla, né un abbraccio o un sorriso o una parola. Girò le spalle e corse via coi suoi stracci che nascondevano l’essenza ed il dolore.

Lui imbracciò il suo fucile e tornò a combattere una guerra che non aveva scelto. Per difendere la terra che era stata di suo padre. Che ora era sua. E che un giorno sarebbe stata di suo figlio.

Una terra in cui vecchi e giovani avrebbero potuto vivere in pace e felici, all’ombra degli alberi di pesco fioriti, e loro due sulle spiagge bianche, con la compagnia dei soliti amici, a bere birra dopo una corsa in moto.

Se solo lui e i suoi compagni avessero resistito. Se solo il mondo avesse avuto occhi per vedere. Se solo un Dio qualsiasi avesse volto lo sguardo verso uno strazio inutile.

Una forza immane si impossessò di lui e gli fece credere possibile ogni cosa.

Corse gridando verso il suo posto di combattimento e cadde in ginocchio e mani al cielo, mentre una pallottola vagante e precisa interruppe i sogni semplici di un padre, andandosi a piantare al centro di quel corpo giovane e tanto amato. Da una donna che pochi minuti prima gli aveva detto addio.

Homs, Siria 19 marzo 

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