Visti da vicino – Hussein Al-Khalidi, l’artista migrante che vuole scoprire cosa significhi “identità”

Non è sempre così scontato riuscire ad avere l’opportunità di condividere idee con artisti, che raggiungono il Salento per fare ricerca. Dunque, siamo molto grati al “Theatre Maker” Hussein Al-Khalidi per il tempo prezioso che ha dedicato alla nostra rubrica “Visti da Vicino”, per averci parlato, in questo difficile momento storico, del suo lavoro artistico, visione del mondo e del teatro in particolare. Hussein Al-Khalidi, di origine iracheno-belga in visita a Lecce per approfondire varie tematiche tra cui quella legata alla figura dell’attore/attrice migrante, da molti anni sviluppa progetti artistici socialmente impegnati. E’ attore, esperto in fotografia, riprese video, tecnico luci e suoni, direttore e produttore di documentari e programmi broadcast, inoltre, direttore artistico di molteplici progetti e dell’associazione artistica Madam Fortuna di Anversa.

Come e perché nasce la sua ricerca?

La mia ricerca nasce da un bisogno personale e urgente: quello di capire chi sono come artista migrante, e cosa significa “identità” in un mondo in cui spesso si viene etichettati prima ancora di essere ascoltati. Ho visto tanti lavori artistici in Europa, bellissimi e tecnicamente impeccabili, ma spesso dominati da una prospettiva europea, anche quando gli autori provenivano da Paesi non europei. Questo mi ha spinto a cercare un linguaggio mio, autentico, e a creare uno spazio dove le identità marginali potessero esprimersi senza filtri.

Cosa significa oggi essere un attore/attrice migrante?

Essere artista migrante oggi significa vivere in una costante tensione tra appartenenza e invisibilità. Significa portare sulle spalle il peso della memoria, della politica e dell’altro sguardo. Ma significa anche avere la possibilità di costruire nuovi ponti, e trasformare il proprio vissuto in qualcosa di universale. Non è solo una questione di rappresentanza, ma di trasformazione.

Qual è il senso del suo racconto, oggi, in un contesto segnato da potere, guerra e disumanizzazione?

Credo che il teatro sia uno degli ultimi luoghi dove possiamo ancora cercare valori profondi e spiritualità. Il mio racconto vuole essere uno spazio di verità, di poesia, e di incontro. Usiamo il teatro non solo per rappresentare, ma per creare connessioni reali. In un mondo che celebra l’effimero, io voglio costruire qualcosa che rimane: uno spazio dove ci si possa riconoscere, ascoltare, e accogliere.

Cosa pensa della funzione educativa del teatro?

Il teatro è una scuola di vita. Insegna l’ascolto, l’empatia, il rispetto. È uno spazio di trasformazione personale e collettiva. Il pubblico non è lì solo per “vedere”, ma per partecipare, per sentirsi coinvolto, e, a volte, per cambiare.

Quale contributo intende dare il suo teatro alla questione della migrazione e della convivenza?

Siamo tutti ospiti su questa terra. Ma spesso ce lo dimentichiamo. Il mio teatro vuole essere un gesto d’accoglienza: un ponte tra culture, un luogo sicuro per raccontare e ascoltare. Le storie ci aiutano a comprendere noi stessi e l’altro. Senza muri, senza filtri. Solo esseri umani che si riconoscono nella loro luce.

Come sarà realizzato lo spettacolo? Quando e dove andrà in scena?

Il nostro spettacolo vedrà la luce nel 2026, accompagnato da una serie di workshop sull’identità e sull’appartenenza. Sarà un progetto collettivo che riunirà artisti non europei in una piattaforma condivisa. L’obiettivo è creare non solo una performance, ma un processo vivo e partecipativo. Il luogo della prima è ancora in definizione, ma il percorso è già cominciato.

Per concludere, qual è la sua personale visione sul senso della vita?

Credo che siamo tutti piccole luci. E se io e te continuiamo a brillare, anche in un mondo buio, possiamo ispirare altri a fare lo stesso. Ma se nessuno di noi usa la propria luce, allora il buio rimane. Il mio teatro è questo: una scintilla nel buio, un invito alla luce. Vorrei condividere con te Annarita e con voi lettori di PaiseMiu alcune parole che rappresentano bene il cuore della mia visione artistica – parole semplici, ma dense di significato:

“Con il pane vivi. Con il teatro capisci perché.”

“Il teatro è il pane dell’anima.”

“Dammi una sala, una storia e un pezzo di pane – e trasformerò le persone in specchi.”

“Il pane nutre il corpo, il teatro nutre l’essere umano. Insieme, creano uno spazio per la guarigione.”

Questo è il mio teatro. Una scintilla nel buio. Un invito alla luce.

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