La bellezza che si fa suono

Alla vista di Venere che suona l’arpa (precedente al 1634) di Giovanni Lanfranco, opera realizzata per il virtuoso e compositore Marco Marazzuoli (Marco dell’Arpa), si rimane incantati per la ‘maraviglia’. Pur in presenza della dea, l’attenzione è riservata allo strumento musicale che, presente nelle più svariate fonti iconografiche, rappresenta quasi l’incontro ideale tra bellezza ottica e acustica.

Per il suo simbolismo, lo strumento è citato anche nella Bibbia associato all’autore dei salmi, ovvero al Re Davide.

Pur risultando tra quegli più antichi, continua a non dare segni di invecchiamento riproponendo uno splendore cangiante, tanto da ipotizzare un eventuale patto, non con il diavolo, con Dio e non mancano sue rappresentazioni all’interno di cori angelici.

Dotata di uno charme particolare, l’arpa, non passa mai inosservata e, in alcune opere letterarie, è evidente l’accostamento della sua bellezza con quella femminile. Particolare che ha accresciuto, nell’immaginario collettivo, nonostante la presenza di molti arpisti uomini, l’idea di strumento più idoneo al gentil sesso.

Rimanendo ancora nel mondo mitologico, una leggenda racconta che Apollo, nel meravigliarsi delle vibrazioni sonore dell’arco di Diana, decise di aggiungere altre corde dando così origine allo strumento.

Presente fin dalle civiltà più remote, nel corso dei secoli la incontriamo nelle diverse culture con forme, dimensioni, numero di corde e con le più svariate decorazioni.

Nel Medioevo è molto diffusa sia nella versione gotica che irlandese e Curt Sachs, riferendosi alle Leges Wallicae o Laws of Wales, ricorda che in casa di un uomo non deve mancare: «una moglie virtuosa, un cuscino sulla sua sedia e un’arpa ben accordata». Dante, citandola insieme alla giga, la descrive «di molte corde» e dal «dolce tintinno» (Pd, XIV, 118).

Vincenzo Galilei, padre di Galileo, nel suo Dialogo della musica antica et della moderna (1581), ricorda la sua derivazione dal modello irlandese e nel ‘600 è presente sia per la realizzazione del basso continuo che come solista, mentre Monteverdi, intuendone la versatilità, la utilizza nell’Orfeo (1607).

Praetorius, nel suo Theatrum instrumentorum ne illustra tre tipi: quella diatonica, l’irlandese e quella doppia, cromatica.

Mozart la inserisce nell’aristocratico Concerto per flauto e arpa in do maggiore K. 299 (1778) offrendo, a tratti, un esempio magistrale di scrittura cameristica.

Nella sua molteplice ‘metamorfosi’, tra la seconda metà del Settecento e l’Ottocento, soprattutto in area anglo–germanica, è diffusa anche come arpa eolia, le cui vibrazioni sono prodotte dal vento, un ritorno di Zefiro unito ad evocazioni poetiche come accade, per esempio, con Hoffmann, Novalis, Lamartine.

Schumann, ascoltando lo Studio per pianoforte op. 25 n. 1 di Chopin, scrive: «Si immagina un’arpa eolia che possiede tutta la scala dei suoni e che la mano di un artista getti casualmente questi suoni come fantastici arabeschi» e Berlioz nell’opera Lélio inserisce un movimento dal titolo La harpe éolienne.

Pascoli ne offre una poetica descrizione:

L’arpa d’oro / pende ai salici: / il canoro / vento l’agita: / il poeta vede e ode, / ode e gode. Non le dita / mie la tocchino! / L’infinita / anima l’animi! /Arpa, al vento, al sole, oscilla, / brilla, squilla! (Il Poeta ozioso).

Verdi, nel coro del Nabucco (Va, pensiero, sull’ali dorate) intona retoricamente il testo di Solera «Arpa d’or dei fatidici vati, / Perché muta dal salice pendi?» quasi contrappuntandosi ai versi pascoliani.

Per suonarla basta accarezzarla come succede, per esempio, nella cadenza tratta dal balletto Lo schiaccianoci di Čajkovskij.

La scrittura su due pentagrammi, come per il pianoforte, permette di poter realizzare trascrizioni e riduzioni delle più svariate partiture e compositori come Wagner non hanno esitato ad utilizzarla sovente nelle loro opere.

Il Novecento, con Debussy, offre una delle composizioni più affascinanti, le Danse sacrée et Danse profane ove l’arpa dal colore antico e modaleggiante si relaziona con un’orchestra d’archi.

Dotata di un’ampia estensione, con le sue 47 corde, è capace di offrire molteplici effetti. Oltre ad essere suonata pizzicando ordinariamente le corde, attraverso tecniche particolari, può produrre anche suoni étouffés, metallici, secchi, oltre che glissati, accordi e tremoli eolici. Si possono pizzicare le corde con le unghie, eseguire armonici, ronzare la corda attraverso il movimento del pedale, battere sulla cassa armonica, ecc.

Impiegata nella musica contemporanea, nel jazz, e in tanti altri generi, ricordando la versatilità della virtuosa Cecilia Chailly, in terra salentina segnalo Sabrina Liù Luciani per l’impegno ad interagire con le sue arpe con il mondo del teatro e della poesia.

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