Cesare Calense, un pittore di Forio d’Ischia nativo della provincia di Lecce?

Ancora oggi i biografi di Guido Monaco, uno dei maggiori teorici musicali del Medioevo, fanno fatica a definire con certezza il luogo esatto ove egli è nato. C’è chi ne attribuisce i natali ad Arezzo, chi a Talla (Arezzo) e chi, infine, a Pomposa (Ferrara).

Quando, invece, si è certi delle origini di un personaggio, spesso lo si accomuna al luogo di nascita come, per esempio, Santa Caterina da Siena.

Tra i casi ancora un po’ incerti vi è quello di un artista nato tra il 1560/70, corrispondente al nome di Cesare Calense o, come generalmente firma le sue opere, “Caesar Calensis Pingebat” oppure “Pinxit” o semplicemente “Calise”.

Un autore napoletano del XVIII sec., Bernardo De Dominici, artista e storico paragonabile al Vasari, riferisce nelle sue Vite dei pittori, scultori ed architetti napoletani (1742-45): “Cesare Calense fu della Provincia di Lecce, e fece assai bene di pittura, con un colore affumato; ma resta ignoto a noi di chi egli fusse discepolo; avendosi eletta una dolce maniera fondata sú d’un perfetto disegno, ed un ottimo chiaroscuro; come si vede in una Cappella della Chiesa di S. Gio. Battista, presso la Marina del vino; ove in una tavola di Altare vi è dipinto Cristo morto nel grembo della SS. Vergine addolorata, in atto così mesto che ben dimostra l’intenso dolore, che sente nel suo cuore”.

Diversi studiosi di area campana, attraverso fonti di varia tipologia, cercano di confutare questa tesi chiarendo che l’artista altri non è che Cesare Calise, originario di Forio e non del Salento.

A sostegno di ciò si prende come prova il genitivo “forigli”, talvolta apposto accanto alla firma del pittore; inoltre molte delle sue tele sono conservate proprio nel comune ischitano, tra cui la Basilica di Santa Maria di Loreto e quella di San Vito, come anche nella Chiesa di San Carlo, di Santa Maria del Soccorso, ecc., restando idea comune che molte opere siano andate perdute.

Con molta probabilità l’errore nasce nella traduzione, da parte di De Dominici, della firma dell’artista nel quadro della Pietà che si trovava nella Chiesa di San Giovanni Battista a Napoli.

A parte il problema dell’attribuzione dei natali, ciò che incuriosisce è il dipinto Trinità con San Gennaro e Santa Cecilia, conservato all’interno della Basilica di San Vito a Forio. Sembra che l’opera sia tra le ultime realizzate dall’artista, commissionatagli da Vittoria Furno, Millia e Beatrice Maltese, “Maestre del Santissimo Sacramento”, come risulta dalla scritta in fondo alla tela, sotto la mano sinistra della santa, ove si legge anche “Anno D. 1636”. Sopra la figura di quest’ultima e di San Gennaro (con in mano un libro e l’ampolla del suo sangue in atto di benedire) vi sono Cristo e il Padre, raffigurati su delle nubi, mentre al centro si nota un globo al di sopra dei quale spicca la colomba dello Spirito Santo.

La protettrice della musica suona l’organo positivo, strumento simile a quello rappresentato da Simon Vouet (1590-1649) nel suo Santa Cecilia.
A differenza della tela di quest’ultimo, l’organo raffigurato da Calise è più semplice e rende visibile la tastiera insieme alle mani della Santa che, come ispirata, lo suona con lo sguardo rivolto verso l’altro.

Vouet dipinge solo dieci anni prima di Calise lo stesso soggetto, ma dal punto di vista iconografico – musicale vi è un particolare molto curioso nella tela ischitana: la tastiera dello strumento presenta una successione dei tasti neri piuttosto insolita. Infatti, alla normale alternanza di 2+3 tasti neri, inframmezzati a quelli bianchi, qui troviamo solo una successione di 3 tasti neri.

Rimanendo nell’ambito musicale, ricordo che sussistono rapporti significativi tra la Scuola Napoletana e il Salento, in particolare con i Conservatori di Musica e, nel caso di Calise, potremmo pensare ad una conoscenza poco approfondita della musica e, nella fattispecie, dello strumento, benché gli artisti abbiano sempre avuto il vezzo di alterare la realtà attraverso la fantasia.

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