Il grammofono attraverso la percezione poetica 

In qualche negozio d’antiquariato o nelle case di cultori di oggetti del passato è possibile trovare ancora il grammofono, una scatola di legno con all’interno un motore azionato da una manovella, un piatto ove posare il disco e un altoparlante a forma di tromba in grado di trasmettere il suono. L’invenzione è attribuita al tedesco Emile Berliner nel 1887 e nella forma del disco fonografico risale al 1889, di cui ricorre il 130o anniversario.

Ripensando al Trattato della pittura di Leonardo, nel definire la musica sorella minore, ove specifica che: «la pittura eccelle e signoreggia la musica perché essa non muore immediate dopo la sua creazione, come fa la sventurata musica», viene da chiedersi se con i mezzi di riproduzione del suono inventati nel XIX secolo, l’artista-scienziato avrebbe espresso il medesimo giudizio. Infatti le opere di pittori, scultori, ecc. in genere restano e si possono ammirare nel tempo, mentre per i suoni rimane soltanto il ricordo. Così, per esempio, se in qualsiasi momento possiamo contemplare la Flagellazione di Cristo del Caravaggio, chissà che cosa non faremmo per ascoltare la prima esecuzione del Die sieben letzten Worte unseres Erlösers am Kreuze (Le sette ultime parole del nostro Redentore in croce) di Joseph Haydn.

Ritornando al grammofono, grazie alle sue caratteristiche è stato possibile riprodurre discorsi e musica di ogni genere divenendo così fonti della storia da poter ascoltare, leggere e studiare attraverso l’orecchio in qualsiasi momento. Ma l’ascolto, come è noto, rimanda anche ad emozioni poetiche, immagini, associazioni e metafore che in qualche modo ci accompagnano nella vita. In questa occasione il grammofono, attraverso la lettura “acustica” di alcuni versi di Paolo Pellegrino (sacerdote novolese e autore di versi poetici per il fratello musicista mons. Francesco), diventa anche compagno e dolce amico.

[button color=”” size=”” type=”round” target=”” link=””]IL GRAMMOFONO (da Raccolta di Poesie, Novoli, 1975)[/button]

Quante cose mi dici quando canti, / quante cose ripenso quando taci! /Se ti guardo in quell’angolo remoto/ di stanza, taciturno e solitario, /un ingombro grazioso sul tondino, / una teca sgargiante di colori/ sembri: cosa di poco, un nulla quasi. /Ma quando s’apre il tuo segreto ascoso/e disveli l’incanto dei tuoi doni […] pare che intorno ti folleggi, aliando / stuolo non visto d’anime che in terra, / sol per tuo mezzo, portino messaggi/ col murmure d’un ala nel mistero. /E mentre ruota l’ordigno sotto l’ago, / svolano i suoni e danzano tra loro, / legati da un fruscìo che non s’arresta, / come un respiro grave di dolore. /Son dolci melodie, echi di pianto, / palpiti d’amore e vibrazioni/ di cadenze che lasciano nel cuore/ un margine di sogni e di pensieri/ che attingono la luce dalle stelle/ e l’ombra sconsolata dalla notte. […] Tutti godon di te quando ti muovi/A me lasci qualcosa in fondo al cuore/sempre: un motivo nuovo di canzoni, /una soave cadenza e un’armonia, / un pensiero che sale incontro al cielo/ come un profumo di rose sul tramonto./Tu ritorni a tacere, o dolce amico,/ nell’angolo a te noto, circondato/ di silenzio, di polvere e d’oblio, /ed io da te mi parto con la luce/ negli occhi, e nel cuore un gran tumulto/ d’immagini pensose  e turbinanti./ Torno al lavoro e ti ripenso intanto/ come l’amico che dona e si nasconde.[…]  Dopo la vita tacerò pure io…/Sul cener muto fioriran le rose, /veglieranno su me tutte le stelle/ che oggi ascoltano entrambi, o dolce amico.

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