Vasari su Leonardo da Vinci, Omo sanza lettere

Giorgio Vasari, ne Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori, e architettori (1550), descrivendo le eccezionali capacità del genio vinciano, riferisce: «dovunque lo animo volse nelle cose difficili, con facilità le rendeva assolute».

Figlio illegittimo del notaio Piero da Vinci e di Caterina (di umile estrazione), riceve nell’entourage della famiglia paterna, pur non in modo regolare, la sua prima formazione.

Ben presto il giovane, secondo lo storico aretino, «nell’abaco egli in pochi mesi […] movendo di continuo dubbi e difficultà al maestro che egli insegnava, bene spesso lo confondeva». E ancora «nelle cose de’ numeri faceva muovere i monti, tirava i pesi».

Inoltre, Leonardo si dedicò allo studio della musica imparando a suonare la lira senza mai smettere di dedicarsi al disegno.

Il resto del suo apprendistato è abbastanza noto: grazie all’intervento dello zio Ser Francesco da Vinci (e non Piero, come erroneamente scrive Vasari) entra nella bottega di Andrea del Verrocchio a Firenze, riuscendo così a dare sfoggio del suo multiforme ingegno come pittore, geometra, architetto, scultore al punto che «Laonde volse la natura tanto favorirlo, che dovunque e’ rivolse il pensiero, il cervello e l’animo, mostrò tanta divinità nelle cose sue, che nel dare la perfezzione, di prontezza, vivacità, bontade, vaghezza e grazia, nessuno altro mai gli fu pari».

Alla luce di queste testimonianze, colpisce leggere negli appunti del genio, conservati nel Codice Atlantico, questa ammissione: «So bene che, per non essere io letterato, che alcuno prosuntuoso gli parrà ragionevolmente potermi biasimare coll’allegare io essere omo sanza lettere».

Leonardo non conosceva il greco e poco il latino, ma la sua affermazione apre ad una riflessione che vede da un lato il guardare l’antico come modello di virtus e dall’altro (posizione di Leonardo) il considerare la Natura e l’esperienza magistrae: «le mie cose son più da esser tratte dalla sperienza, che d’altrui parola, la quale fu maestra di chi bene scrisse, e così per maestra la piglio e quella in tutti i casi allegherò». E ancora, con spiccata vis polemica, nel dissociarsi da un sapere riservato agli eruditi, precisa: «Le buone lettere so’ nate da un bono naturale, e perché si de’ più laldare la cagion che l’effetto, più lalderai un bon natùrale sanza lettere, che un bon litterato sanza naturale». Nel XV sec. il latino era ancora la lingua per accedere allo studio dei classici e – dulcis in fundo – in questo periodo gli artisti, ascrivibili alle arti meccaniche, cercano di essere riconosciuti e ammessi all’interno delle arti liberali, tanto che nel suo Trattato di pittura Leonardo si occupa della vexata quaestio concernente la supremazia delle arti.

Tuttavia, egli è un cultore appassionato delle lettere e conosce opere di Ovidio, Dante, Petrarca, Tolomeo, Poggio Bracciolini, ed altri. I suoi interessi spaziano dalla poesia alla grammatica latina, alla storia, alla matematica, alla filosofia, all’arte, alla musica, alla medicina, all’architettura, ecc.

Pur non rimanendo nulla della sua biblioteca, grazie alle annotazioni dello stesso Leonardo se ne può ricostruire l’entità, arrivando a circa duecento volumi.

Come esempio segnalo che egli possiede una copia del De divina proportione, opera a: «tutti glingegni perspicaci e curiosi necessaria» del frate e matematico Luca Pacioli «ove ciascun studioso di philosophia, Prospectiva, Pictura, Scultura: Architectura, Musica e altre Mathematice: suavissima: sottile: e admirabile doctrina consequira: e delectarassi: co’ varie questione de secretissima scientia», realizzandone i disegni dei sessanta solidi.

Seguendo l’esempio dell’amico Pacioli, anch’egli è fautore del dialogo tra i saperi. Per conseguire ciò occorre una conoscenza approfondita di tutte le discipline, convinto che: «Quelli che s’innamorano di pratica senza scienza son come il nocchiere, che entra in naviglio senza timone o bussola, che mai ha certezza dove si vada».

Di Leonardo ‘scrittore’ non resta alcuna opera compiuta in quanto lo stesso Trattato della pittura è opera postuma, curata da Francesco Melzi e redatta in base alle carte leonardiane, mentre si conserva in vari codici una cospicua serie di appunti, glosse, disegni, progetti, enigmi e quant’altro. La sua scrittura, decisamente essenziale, ricorda l’adagio intelligenti pauca, tanto che può apparire ‘approssimativa’ e a tratti indecifrabile se non si considera che è speculare in quanto va da destra a sinistra.

A confutare alcuni giudizi sull’essere omo sanza lettere ci soccorrono ancora le parole del Vasari, il quale afferma che i «suoi [di Leonardo] ragionamenti faceva con ragioni naturali tacere i dotti» oltre ad essere «tanto piacevole nella conversazione che tirava a sé gli animi delle genti».

Per argomentare gli bastava l’uso del volgare: «Io ho tanti vocaboli nella mia lingua materna, ch’i’ m’ho piuttosto da doler del bene intendere le cose, che del mancamento delle parole, colle quali bene esprimere il concetto della mente mia» e il patrimonio culturale che ci ha lasciato è più che bastevole.

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